Le vite degli altri
L’immagine della Livella creata da Totò mi ha sempre colpito per la sua nitidezza e mai come in questi giorni diventa reale.
Con la livella Totò parlava della morte, di come tutti, prima o poi, saranno chiamati a fare i conti con questo meccanismo che pareggia senza distinzioni ricchi e poveri, buoni e cattivi, belli e brutti, vecchi e giovani.
La livella in questi giorni però ha avuto una valenza in più, quella di annullare le specificità delle persone. In emergenza siamo diventati tutti uguali, le misure di contenimento del contagio hanno uniformato le istanze dei singoli e delle famiglie.
Però di fatto restiamo ancora diversi. Gli impeti delle preghiere di chi ordina di restare chiusi in casa, ignorano le differenze tra chi vive in quattro mura e chi in una villa con piscina. Tra chi campa da solo, oppure in amorevole compagnia. Tra chi ha un figlio problematico o una compagna in preda alla depressione.
Le vite non sono tutte uguali. Eppure deve essere così. Se io resto a casa, ci devi restare pure tu. È questo il fatto, la realtà di questa visione unilaterale.
La livella ha trovato posto nella paura, nella fretta, nella difficoltà di empatia con l’altro. Annullate le zone grigie, le mezze misure e gli anziani che di colpo diventano vecchi.
Ma no: non siamo tutti uguali e il bene comune è riconoscerlo.
La livella non guarda in faccia nessuno e le misure di contenimento del contagio sono sacrosante, perché servono per la sopravvivenza della comunità.
Ma la comunità si fonda anche sulla compassione – che non è retorica tricolore – è la capacità di tirarsi indietro a giudicare, perché le vite degli altri non ci appartengono e spesso sono più complicate di come sappiamo immaginarle.